Vibe – Milano

Vola come una farfalla, pungi come una farfalla.

No, non mi sono rincoglionito, o meglio, non lo sono più del solito, ma questa è la risposta che ho dato a tutti quelli che su IG mi hanno chiesto come sia andata da Valerio Braschi a Milano.

Riassunto delle puntate precedenti.
A luglio di quest’anno Valerio Braschi, dopo aver terminato la sua esperienza al Ristorante 1978 di Roma, ha deciso di aprire il suo nuovo ristorante in quel di Milano e io, seppur con qualche mese di ritardo, ho deciso di andarci a mettere il naso…

Devo confessarlo: io stimo moltissimo Valerio perché, come Tommaso Zoboli di Patrizia, si tratta di due giovani che hanno deciso di tirarsi su le maniche e mettersi in gioco.
Valerio, a differenza dei millemila nessuno che ha sfornato Masterchef, ha dimostrato che, avendo un’idea e avendo voglia di rischiare, si può fare qualcosa utilizzando quel format televisivo, ormai ridotto a una soap opera in cui tutti piangono, come trampolino di lancio.

La cucina che ho trovato al Vibe è una versione più edulcorata e meno spigolosa di quella che avevo trovato al Ristorante 1978: mi aspettavo le montagne russe e, invece, ho trovato il brucomela.
Tutti i piatti, nessuno escluso, sono risultati mediamente “coccolosi” e destinati ad andare incontro ai gusti di tutti i commensali; anche questa volta ho trovato un punto di sale leggermente più alto di quello che mi aggrada, soprattutto nell’anguilla, ma sono gusti.

La cena, comunque, è scivolata via in maniera molto piacevole con piatti oggettivamente molto buoni e ben fatti e con un paio di chicche veramente interessanti, seppur anch’esse dal gusto molto comfort.

L’unico piatto, a mio avviso, “sballato”, ma solo per equilibrio, sono stati i cappelletti di lasagna della Bruna: la pasta sfoglia era semplicemente perfetta e il ripieno di crema di ragù e besciamella, con tantissima noce moscata, ti faceva godere come un riccio ricordando proprio un’ottima lasagna della domenica, probabilmente, per una svista al momento dell’impiattamento, la crema al parmigiano che avrebbe dovuto dare sapidità e contrastare la complessiva dolcezza è stata messa con avarizia creando, quindi, un piatto eccessivamente dolce.

Il piatto della serata, invece, sono state le Mazzancolle, Tom yam, cocco e cardoncelli.
Per quanto, nel complesso, fosse una portata molto piaciona e saldamente appoggiata su una generale dolcezza (mazzancolla e cocco), la differenza tra la consistenza robusta del cardoncello che, quindi, garantiva una maggiore persistenza in bocca del sapore del fungo arrostito e la morbidezza tartare di mazzancolle creava un equilibrio pressoché perfetto che non annoiava, certamente anche per merito alla nota delicatamente piccante della salsa tom yam.
A proposito del piccante, io rivedrei la presentazione del peperoncino, soprattutto se la portata viene servita senza coltello, ma solo con forchetta e cucchiaio: non riuscendo a tagliare la fettina di peperoncino con gli strumenti messi a disposizione, mi sono trovato in bocca il pezzo intero e, io che mangio anche molto piccante, ho avuto qualche serio (ma superabile) problema di gestione

Un applauso per il brodo di agnello arrostito.
Nella sua apparente semplicità dimostrava di avere alle spalle un lungo lavoro di preparazione e un bellissimo gioco di equilibri; l’idea di partire, per la preparazione del brodo, da un pezzo di carne arrostita anziché con un pezzo di carne cruda, trasferiva la sensazione di affrontare un pezzo intero di carne e non un suo estratto.
Per quanto so che mi prenderanno per il torototela per mesi dopo questa mia affermazione, mi è sembrato un brodo tridimensionale.

Veramente ben equilibrate le lumache, ceci e chorizo anche se, a mio gusto, ma qui stiamo parlando veramente solo di gusti personali, avrei preferito le lumache un pochino più croccanti.
L’uso del chorizo, invece, mi ha ricordato il piatto ostriche, banana verde, chorizo in Thai style di Davide Scabin nel suo ultimo menù al Carignano.

Come anticipato, la cena è stata certamente piacevole e non ho visto scivoloni rilevanti, anzi.
Tuttavia, da uno chef come Valerio, che fa della ricerca e della voglia di stupire e provocare il suo biglietto da visita, mi sarei aspettato molto di più dal punto di vista gustativo, senza contare che ho pure avuto la sfiga di non trovare l’unico piatto che avrei voluto assaggiare tutti i costi, ossia gli spaghetti, burro, blood-targa: in vista del prossimo cambio di menù, era stato tolto dalla carta in quanto era quello che richiedeva una preparazione più lunga, ossia quasi due giorni.

Nel complesso, ho trovato sapori molto rotondi e poche (nessune?) provocazioni gustative, senza contare che ho visto rivisitazioni di cose già mangiate a Roma o, comunque, di abbinamenti già visti altrove.
È vero che non tutti sono dei pirla come me che fanno anche migliaia di chilometri per mangiare in un dato ristorante, ma quando si vuole fare fine dining ai livelli che vuole fare Valerio, si deve mettere in conto la presenza anche di ospiti difficili.
A sua difesa, tuttavia, c’è anche da dire che le nuove partenze in un nuovo ambiente sono sempre difficili e, quindi, ci vuole del tempo per assestarsi.
Sono ragionevolmente certo che nei prossimi mesi, correggerà il tiro e inizierà a sparare cartucce ben più penetranti.

Bella l’idea di proporre, al posto del solito burro, una degustazione di olii (in collaborazione con il fratello Lorenzo, sommelier di olio), così come l’idea di proporre una chiusura del pasto con un’acqua minerale, al posto del classico amaro.

Carta vini ancora in fase di evoluzione.

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