Siamo sinceri con noi stessi, una volta tanto.

Per quanto questo sito (onestamente non me l’aspettavo) stia andando sostanzialmente bene (considerato che sono uno scappato di casa), è arrivato il momento di farsi una domanda, ossia cui prodest?

Ossia, per quelli che non hanno studiato latino o che semplicemente non lo ricordano, la domanda è da porsi è a chi giovi questo ambaradan.

La domanda è certamente molto seria.

Io sono un nessuno qualunque, che ha sempre apprezzato la buona cucina, che un giorno ha deciso che avrebbe capito qualcosa di cibo e, così, ha cominciato a mangiare in giro per ristoranti stellati e non, cercando di capirci, appunto, qualcosa.
Ne ho fatti tanti, ma tanti arrivando a mangiare, più o meno, circa diecimila piatti gourmet.
Ci ho capito qualcosa? Onestamente non ne ho la più pallida idea.
Forse aveva ragione il Gippo scherzando (o forse no) dicendo che non capisco un cazzo (*).

In questo mondo mi sono imbattuto in persone che, loro sì prendendosi sul serio, non potendosi permettere il pasto (anche per colpa degli editori che non pagano come dovrebbero), fanno markette ai ristoranti con recensioni elegiache, con ristoratori proni e pronti a tutto per due righe di amore fugace su carta.

Ho visto decine di concorsi per sancire chi fosse il miglior qualcosa del mondo.
L’utilizzo del termine qualcosa non è casuale, perché sì, si è sempre i migliori del mondo: basta vedere le premiazioni delle guide gastronomiche in cui premiano anche il miglior paio di calzini appaiati o il premio del miglior panettone del mondo (ne ho contati almeno cinque negli ultimi quindici giorni).

Mi sono imbattuto in persone che per poter sedere a tavola con me hanno cercato di farmi credere (e forse, talvolta, ci sono riuscite) che potessi essere una persona interessante, quando di interessante, forse, c’era solo una American Express e un certo rapporto di confidenza dello chef che assicurava un piatto in più e un barlume di finta importanza.

Mi sono imbattuto in me stesso, nel mio ego, che un mio amico d’infanzia definiva e definisce “smodato”.
Citando una frase che ho detto, seppur in un contesto leggermente diverso, un giorno che ero a pranzo a Treviso con l’amico chef Nicola Cavallin: “mi sono appena visto allo specchio e quello che ho visto non mi è piaciuto per nulla“, ossia la voglia di far vedere agli altri (finalizzato all’invidia, sia ben chiaro) che bel tipo di vita sia quella di andar per stellati, quando, in realtà, è proprio una vita del cazzo in cui si diventa schiavi di sé stessi e della voglia, appunto, di generare invidia nel prossimo, circondandosi, talvolta, di persone che sarebbe meglio evitare e che ti sfruttano per motivi più o meno simili ai tuoi.

A questo punto la domanda sorge spontanea: ma perché hai scritto quello che hai scritto, parlando anche (giustamente) male di te stesso?

La risposta è semplice, e rimanendo nel campo della ristorazione, è come quando fai un’indigestione in cui, alla fine di un pasto importante, basta anche una semplice mentina (**), ossia una cosa di per sé banale, a farti star male.
Mia nonna diceva che quando hai fatto un’indigestione la soluzione migliore era quella di cercare di vomitare.

Ecco.

(*) Il bello di essere proprietari del sito è che non devo sottostare al politically correct di ‘sto par di coglioni dei social dove ti fanno shadow ban perché chiami “terrone” un amico che abitualmente e scherzosamente appelli come tale, oppure vieni messo in quarantena perché parlando di finocchio in cucina pensano che tu stia offendendo gli omosessuali.

(**) Rimando ad uno spezzone de “Il senso della vita dei Monty Phyton” non adatto ai deboli di stomaco.

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