Grow – Albiate (MB)

Siamo ad Albiate, un piccolo comune in provincia di Monza Brianza, dove due fratelli, con una grandissima passione per la caccia, hanno aperto un piccolo ristorante gourmet, con appena cinque tavoli, in cui, appunto, la caccia fa da padrone: pressoché tutte le portate salate, infatti, sono preparate con materie prime che derivano, appunto, dalla caccia, con un approccio etico ad essa, ossia, il massimo rispetto dell’animale e la totale valorizzazione di ogni parte dell’animale stesso, anche quelle meno pregiate.

Altra caratteristica che contraddistingue lo spirito del locale è il concetto del trascorrere del tempo, che si tramuta in preparazioni che vedono la presenza di carni frollate e di lunghe fermentazioni che coinvolgono anche il burro: ebbene sì, qui non si trova il classico burro (più o meno francese) montato con acqua gasata e l’immancabile sale di Cervia, ma un burro fermentato per sei mesi che appare quasi scorbutico quando lo assaggi con un odore un pochino pungente, una consistenza non cremosa, ma leggermente granulosa e con un sapore acidulo.

Confesso che a primo acchito l’idea della selvaggina frollata mi ha un pochino spaventato perché era una preparazione che non avevo mai abbinato alla cacciagione, ma dopo il primo impatto, è stato veramente piacevole.
A proposito di primo impatto, il primo approccio è stato con una bresaola fatta con del capriolo frollato: al naso mi ha oggettivamente destabilizzato perché l’odore era veramente forte e pungente e, all’inizio, l’ho percepito come quasi fastidioso, tuttavia, all’assaggio è parsa fin delicata e rotonda nei sapori.

Sì, per carità, qualche piccolo peccatuccio veniale qui e là, a mio avviso, c’era, ma si tratta di bazzecole (ad esempio l’anguilla di apertura era un pochino bruciacchiata, ma, ad intingerla nel fondo di anatra, rientrava pienamente nei ranghi) che non hanno influito sui piatti, sempre riconoscibili nei tratti di gusto, con piacevoli picchi che li portavano ad essere intriganti, ma mai estremi.

L’esempio da manuale è nel piatto con l’uovo centenario, il cuore di coniglio, le creste di gallo e il petto d’oca sfilacciato (questo è un piatto che si può trovare solo nel menù Grow, ossia il loro mano libera), il tutto immerso in un brodo sporco fatto con le carni degli animali utilizzati per la preparazione.
Contrariamente a quanto si possa pensare il brodo, per quanto complesso e opulento, non copriva i sapori dei singoli ingredienti di carne, ma ne esaltava le singole caratteristiche diventando il fondamentale trait d’union: si percepiva perfettamente il sapore della brace utilizzata per il cuore di coniglio (delicatissimo), la nota di collagene della cresta di gallo con la sua tipica callosità, il dolce del petto d’oca sfilacciato (preparato con dello zucchero) trovava il suo contro bilanciamento in sapidità e, infine, la violenta nota di ammoniaca dell’uovo centenario aveva il suo antagonista che lo portava ad un livello docile, ma piacevolmente presente.

Altro piatto degno di nota è stato il riso al salto con anatra e zafferano che, lungi dall’essere l’ennesima, banale, reinterpretazione del tipico piatto milanese, è diventato un piatto fusion di stampo giapponese dove la croccantezza del piatto non è data dal ripassare il riso in padella, ma dall’inoculazione del koji che, oltre a conferire quel sapore tipico, molto simile ad un formaggio fermentato, lasciava inalterato il nerbo croccante del riso facendolo percepire come se fosse quasi semi crudo.

Goloso ed insolito il secondo pre dessert a base di nervetti tiepidi e nocciole: sarà stata la temperatura, sarà stata la preparazione dei nervetti o la nota caratteristica della nocciola, ma veniva sempre voglia di una seconda cucchiaiata, poi di una terza e così via…

L’unico piatto che mi ha, oggettivamente, colpito molto poco è stata l’insalata del censimento in quanto l’ho trovata molto (troppo) piana e fuori dal coro, complice, probabilmente, l’insipidità della crema di noci che avrebbe dovuto fare da legante alle singole erbe: se non mi avessero detto che era a base di noci, non l’avrei mai capito.

Mai come questa volta la passione di due ragazzi è riuscita a creare un locale di fine dining improntato pressoché esclusivamente sulla selvaggina e ad entrare diretta, chiara e pulita nei loro piatti, piatti che, per quanto non eccessivamente estremi nei sapori, già solo per le parti utilizzate, non sono nemmeno indirizzati ad elemosinare il consenso di tutti gli avventori.
Per contro, proprio per gli stessi motivi, non è un locale alla portata di tutti: animalisti, vegetariani, vegani e, in generale, tutti a quelli cui fa pena Bambi è meglio che se ne stiano a casa loro, per tutti gli altri, soprattutto per quelli che amano la ciccia, è un posto da mettere in agenda.

Carta vini non particolarmente corposa, ma con alcune chicche interessanti.

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