Il (vero) cliente della Guida Michelin

Cos’hanno in comune gli otto piatti raffigurati nella foto qui sotto?

Sono otto piatti, di altrettanti ristoranti stellati, che ho mangiato nel 2023 in quattro diversi stati europei: Italia, Danimarca, Germania e Svezia.
Cinque di questi sono ristoranti tre stelle, un due stelle, un mono stella e un ristorante che ha conquistato la stella nel corso dell’anno.

La risposta alla mia domanda è, evidentemente, il gusto: sono, infatti, tutti piatti iper burrosi, golosi, opulenti, in una sola parola “francesi”.

Per carità, sono tutti piatti fatti veramente bene, ma sostanzialmente spersonalizzati: a parte (a volte) l’utilizzo di qualche ingrediente locale, ad assaggiarli a occhi chiusi non riusciresti a capire in quale parte d’Europa tu stia mangiando.

Partendo da questa considerazione si arriva, allora, a un pensiero, spesso condiviso con altri viaggiatori gourmet, sul perché il ristorante di Tizio o quello di Caio non trovi le grazie della Guida Michelin.

I nomi che ho in mente sono tanti, ma, ovviamente, non li farò.

La risposta, a pensarci bene, è semplice: sono tutti ristoranti che osano e che hanno una cucina con una forte connotazione identitaria.

A questo punto, proprio in ragione di quanto poc’anzi detto, si innesta il quesito sul perché la Guida Michelin non premi queste eccellenze che, appunto, oltre a fare un’ottima cucina, portano sul panorama gastronomico qualcosa di innovativo.

Come diceva il mitico Corrado Guzzanti, nei panni di Quelo: “la risposta è dentro di te epperò è sbagliata”.

A rispondere a questo quesito sovviene, vado a memoria, un articolo di Dominique Antognoni che ricordava qualcosa che tutti paiono dimenticare, ossia che la Guida Michelin, al di là di essere una guida gastronomica, rimane sempre un prodotto editoriale che, quindi, ha una sua linea editoriale e un suo pubblico di riferimento.
Non dobbiamo, infatti, dimenticare che la Guida Michelin ha come scopo (originario) quello di suggerire ai viaggiatori dove andare a mangiare con le sue classiche tre declinazioni: vale la fermata (una stella), vale la deviazione (due stelle) e vale il viaggio (tre stelle).

Pensando, quindi, ai viaggiatori (abbienti) quanti sono quelli che, effettivamente, sono interessati a provare una cucina che si stacchi in maniera sensibile dalla propria zona di comfort? Pochissimi.
Il burro, le rotondità, gli equilibri, gli ingredienti classici, anche costosi, piacciono a tutti: quanti sono gli utenti abituali del c.d. fine dining disponibili ad assaggiare dei tortelli col ripieno di anatra e sangue di storione?
Prendo proprio l’esempio di questo piatto (assaggiato un paio d’anni fa) perché, in realtà, è stato mangiato moltissime persone che l’hanno pure gradito moltissimo, non sapendo, però, che dentro ci fosse il sangue di storione… L’avrebbero mangiato altrimenti?

Ancora meno, sono i viaggiatori gourmet, ossia quelli che, come me, sono disponibili a organizzare una trasferta all’estero di qualche giorno per andare a provare un ristorante.
Nell’economia della ristorazione i viaggiatori gourmet sono, quindi, un numero irrilevante e, tendenzialmente, un peso per le casse dei ristoranti tant’è che sono spesso osteggiati non essendo gradita (se non vietata) la prenotazione da parte del cliente solo.

In sostanza, i clienti che cercano, osano, vogliono sperimentare, non sono i veri clienti della Guida Michelin e, quindi, le relative aspirazioni di trovare segnalate e premiate realtà che propongano una cucina veramente innovativa non potranno mai trovare riscontro.

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