Nin * – Brenzone sul Garda (VR)

Sono anni che combatto, come molti dei viaggiatori gourmet, contro i beoti da tastiera che, quando vedono la portata di un ristorante stellato o simil tale, fanno la famosa battuta, ormai trita e ritrita: “Ok, la pasta è cotta! Adesso puoi buttarla giù!
Ovviamente, poiché loro non sono mai stati in un ristorante di fine dining, si riferiscono al fatto che la portata sia (apparentemente) misera: è, tuttavia, evidente che quella “misera portata” deve essere inserita all’interno di un contesto di più portate e, quindi, alla fine, non si esce mai dal ristorante con la sensazione della fame.

Fermo assertore di questo concetto, devo confessare che, per la prima volta, un venerdì di alcune settimane fa, dopo aver cenato da Nin, mi sono dovuto ricredere: alla fine della cena mi sono ritrovato al McDonald’s perché avevo ancora fame.

Ebbene sì, come ben potrete vedere dalle foto, la cena è stata certamente molto risicata, con portate assolutamente lillipuziane.

Vabbè, qualcuno dirà che seppur le portate siano state microscopiche, l’esperienza (con buona pace dell’ottimo V.M.V.) sarà, sicuramente, stata stellare.

Purtroppo, non è stato così per me.

È risaputo che, quando si affronta la cucina di Terry Giacomello (questa è stata la terza volta che ho infilato le gambe sotto il suo tavolo), si deve mettere in conto che nulla è quello che appare e che ogni idea tu abbia di un ingrediente può essere stravolto per consistenza, colore, forma e sapore.

Tuttavia, questa volta, molto di più delle volte precedenti, ho avuto l’impressione di affrontare piatti ipertecnici, con ingredienti dai nomi assolutamente impronunciabili, provenienti dai cinque continenti, ma che, alla fine, non mi hanno portato alcun reale guizzo gustativo, diventando dei (certamente non semplici) esercizi di stile fini a sé stessi.

L’esempio più fulgido, a mio avviso, è stato il falso lardo, ossia un fungo (tremella fuciformis) tipico della cucina cinese, molto simile dal punto di vista estetico a lardo stesso, lavorato in maniera tale da renderne il sapore, appunto, molto simile a quello del lardo di Colonnata.

Ora, sarà un mio limite mentale, ma se devo fare, anche solo i virtualmente, migliaia di chilometri per scoprire un nuovo ingrediente, non comprendo l’utilità di volerlo utilizzare per ottenere un sapore banalmente noto: mi sembra tanto l’approccio dei vegani che lavorano vegetali, in ogni modo noto e ignoto, per tentare di ottenere il sapore della carne.

A distanza di un paio di settimane, in tutta franchezza, faccio veramente fatica a ricordare qualche sapore che abbia in qualche modo incuriosito il mio palato o che si sia collocato al di fuori di una rassicurante zona di comfort, anche solo concettuale: come detto, seduto al mio tavolo ho incontrato ingredienti che, per capire cosa fossero, necessitavano la compulsazione spasmodica dell’Enciclopedia Britannica, ma con sapori alla fine banali declinati nel più classico sentir comune.

Le uniche eccezioni a tale livellamento gustativo le ho trovate con l’INSALATA FOLLE e ACD: nel primo l’acidità veramente spiccata del lampone (artico) si mescolava con la ventina di vegetali preservati che componevano il piatto (concettualmente ricordava molto la famosa insalata 21-31-41 di Enrico Crippa) creando un interessante saliscendi di sensazioni in cui la nota acida permaneva elegantemente in bocca dando bella nota di sé, ma senza strafare.
ACD, invece, per quanto composto da due soli ingredienti, è stato un piacevolissimo catalogo di tutti i gusti, mescolati tra di loro in maniera perfetta: acido dei tartrati e dolce/sapido/amaro/umami del miso, con una lunga chiusura acido/umami.

Da dimenticare ANDIAMO AL CINEMA il cui risultato finale mi è parso lontano miglia da quelle che mi sono state dette essere le intenzioni dello Chef, ossia ricreare, il connubio che si crea quando, al cinema, si mangiano i pop-corn sorseggiando una Coca Cola ghiacciata: la crema di mais, che avrebbe dovuto ricreare il pop-corn, era assolutamente piatta, priva di qualsivoglia parvenza di sale e, dal canto proprio, il ghiaccio di Coca Cola, essendo stato fatto utilizzando un prodotto alternativo, era anch’esso molto piatto.

Carta vini non lunghissima, ma abbastanza variegata che, se si legge bene, consente di bere una bottiglia anche con meno di 50 euro.
Il Sommelier, avendo io scelto alla carta, non mi ha praticamente considerato per tutta la cena; magari, visto che avevo optato per un aligoté (di Pierre Morey del 2020), poteva farsi vivo e proporre un bicchiere di rosso da abbinare con l’asino: poca attitudine commerciale…

Per quanto sia certo che si tratti di un disguido e che, quindi, la ricevuta sia stata sicuramente predisposta, evidenzio che, pagato il conto in contanti, non mi è stato portato il fiscale.

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